Content marketing e native advertising: illusione o rivoluzione?

Content marketing e native advertising: illusione o rivoluzione?

Il native advertising entra in gioco quando i fornitori di pubblicità iniziano (ci hanno messo solo qualche lustro) a capire che un banner che si espande all’improvviso al centro della pagina può infastidire un ignaro navigatore che magari voleva solo leggere una notizia, e si comincia a pensare seriamente all’utilizzo di formati meno invasivi.

Per native advertising si intende la presenza di contenuti pubblicitari dall’aspetto simile a quelli presenti solitamente nello spazio considerato: più o meno come quelli che una volta chiamavamo pubbliredazionali, contenuti sponsorizzati, sponsored post, e così via. Sono sempre esistiti, in realtà, forse si usavano solo in misura minore.

Poi è arrivato Twitter, si è quotato in borsa e ha aperto al pubblico la sua piattaforma advertising, che punta solo sul native. In questo modo è giunto sotto i riflettori un bel dilemma: restare ibridi o no? Facebook, ad esempio, ci fa promuovere i contenuti delle pagine nel modo meno invasivo possibile, ma allo stesso tempo ci riempie la colonna destra di banner. Però almeno ci avvisa.

Non si può sempre dire che giornali, riviste e magazine (sia online che offline) siano altrettanto trasparenti. Sono assolutamente favorevole al voler ottenere un ritorno economico, perché non stiamo parlando di enti benefici, ma quando un un articolo pubblicato su commissione non è facilmente distinguibile da uno spontaneo scatta la confusione, e allo stesso tempo si attiva un meccanismo di diffidenza preventiva verso questa o quell’altra fonte.

Allora l’obiettivo più importante si sposta dall’ottenere visibilità al conquistare (o mantenere) la fiducia degli utenti, che alla fine della fiera restano i destinatari di tutti i messaggi e fanno la differenza tra una campagna riuscita e un flop.

Le domande sono fondamentalmente due.

Quali mezzi usare?

Il native advertising sembrerebbe (per ora almeno) un ottimo compromesso, perché colma il gap tra i classici Paid Media, scalabili ma dall’efficacia in diminuzione, e gli Earned Media, che godono sempre di tanta fiducia ma non sono controllabili e non assicurano una copertura costante durante una campagna. Però non dobbiamo dimenticare che c’è contenuto e contenuto.

Quali contenuti diffondere?

La via che riterrei più corretta, ma contradditemi pure se non siete d’accordo, sarebbe modificare le narrazioni intorno al brand includendo meno autopromozione pura, che nella maggior parte dei casi ha pochissimi effetti, se non quello di allontanare l’utente. Mettere il brand un po’ meno in primo piano, quindi, e offrire qualcosa di utile. Non necessariamente emozionante, coinvolgente, sbalorditivo (o virale, se preferite), basterebbe che fosse utile per ottenere più coinvolgimento (vedi matrice all’inizio del post).

Conclusioni

In questo modo, forse, il nostro navigatore solitario si curerà meno dell’apparenza, della parolina “sponsorizzato” o del logo in basso a destra, e inizierà a considerare maggiormente la sostanza. Magari tornerà anche a trovarci per vedere se abbiamo qualche altra cosa interessante per lui. E forse anche la portata organica dei nostri contenuti potrebbe tornare ad aumentare, invece di essere stroncata sempre di più da fattori indipendenti dal nostro operato.

 

PS: Proprio stamattina, mentre mi accingevo a pubblicare il post, ho trovato una ricerca incoraggiante eseguita da Hexagram sullo stato del Native Advertising nel 2014: la maggior parte dei brand inizia a ragionare maggiormente in modo “native” e meno in modo “autocelebrativo”.

Sarebbe un’inversione di tendenza non da poco. Oppure pensate che l’azione di comunicare non necessariamente vista come un promuoversi, specialmente sui social, sia solo un’illusione?

Fatevi
sentire.

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