Influencer marketing: falsi miti e l’importanza di essere trasparenti

L’influencer marketing è vecchio più o meno quanto il marketing, ma da quando esistono i social media le attività diventano sempre più borderline.

In alcuni paesi l’utilizzo degli influencer nelle campagne di marketing è regolato da leggi apposite: come minimo è previsto che qualsiasi accordo economico tra le parti sia sempre esplicitato. Addirittura molte agenzie, in mancanza di direttive specifiche, hanno adottato delle linee guida comuni (come inserire gli hashtag #sponsored e #advertisement alla fine di tutti i post).

Però c’è ancora chi fa il furbo, soprattutto ora che il focus si sta spostando sul native advertising: se i post sponsorizzati sono diventati pratica comune e non vengono più trattati come tabù, i contenuti prevalentemente visual (come le foto postate su Instagram e i video su YouTube) appartengono ad aree più “grigie”, e dunque sono anche più difficili da controllare.

Per esempio, a novembre scorso alcuni video su YouTube dei famosissimi “Dan and Phil” sono stati rimossi su ordine dell’Authority sulla Pubblicità del Regno Unito perché non dichiaravano esplicitamente di essere realizzati per conto di un noto brand di biscotti.

Ancora, la recente campagna di una casa di make-up giapponese che aveva per protagonisti dei selfie di Lady Gaga sta facendo discutere tantissimo, perché sebbene la campagna sia stata mostrata solo in Giappone (dove il brand era autorizzato), le stesse foto sono state postate sul profilo Instagram dell’artista, e quindi esposte ai suoi milioni di follower da tutto il mondo. Per di più, senza menzionare che erano parte di una campagna pubblicitaria.

Una foto pubblicata da @ladygaga in data:

Il problema della poca trasparenza in realtà è presente da sempre, dove c’è controversia c’è sempre qualcuno pronto ad approfittarne. Ma forse è tutto basato su alcune concezioni sbagliate:

1- Dichiarare esplicitamente di aver ricompensato economicamente alcune persone per promuovere un prodotto può essere dannoso;
2- Agire senza esporre il brand conferisce un aspetto più autentico ai contenuti;
3- Coinvolgere persone che possono generare grandi numeri assicura il successo della campagna, ma queste persone non vogliono associarsi direttamente ai brand.

Nessuna delle tre può essere corretta per tutta una serie di motivi, forse potevano essere punti validi qualche anno fa (circa dieci), quando il passaparola online si generava a colpi di infiltration nei forum e seeding a tappeto, e le collaborazioni tra brand e influencer non erano ancora molto diffuse.

Anche sul puntare a numeri elevati si può discutere, perché ci sono svariati elementi da valutare. Immaginiamo di coinvolgere un personaggio con un pubblico potenziale di 50mila persone: saranno le persone giuste, quelle che possono davvero portare i risultati sperati alla nostra campagna di Digital PR (e perché no, ricavarne valore a loro volta)?

Ci servono davvero 50mila persone? Oppure sarebbe stato più efficace raggiungerne dieci volte meno, ma tutte realmente interessate all’iniziativa? Senza contare che spesso, specialmente quando si ha a che fare con un mercato di nicchia, è oggettivamente difficile raggiungere risultati elevati in termini numerici. Insomma, molte, moltissime variabili.

L’unica cosa certa è che l’autenticità (e una maggiore qualità) non può esistere senza onestà e trasparenza. Tante volte sono sufficienti pochi minuti, il tempo di fare un paio di ricerche incrociate su Google, per capire chi collabora con chi, quindi la soluzione ideale è dichiararlo esplicitamente, o quantomeno contrassegnare i contenuti “sponsorizzati” come tali. La poca trasparenza può facilmente esporre il brand a controversie, peggiorando la sua percezione da parte degli utenti, causando diffidenza o addirittura una vera e propria crisi.

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